domenica 23 marzo 2014

#6 UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE



- Sabato 15 marzo 2014 - ore 12:12:52 – Parete Nord -


Dovevamo provarci. L’inverno è stato capriccioso più del solito, mai freddo, quasi mite. Cio non ha fermato eserciti di nubi che, a ondate, ora da sud ora da ovest, si sono infranti contro i monti affacciati alla pianura, scaricando continue bordate di fiocchi luminosi.

Dovevamo provarci. Cornici gigantesche glassano le creste terminali. Ripidi pendii di neve, scolpiti da rigole profonde, raccordano i bastioni rocciosi alla grande cengia. Dove la roccia non strapiomba e dove fessure, diedri e piccole terrazze offrono un appiglio, candide meringhe ornano con fantasia la muraglia.

Dovevamo provarci. Un inaspettato periodo di alta pressione ha fatto tornare a galla desideri sopiti, la voglia di andare a vedere, di farsi abbracciare ancora una volta dall’ombra della Nord. L’abbiamo osservata a lungo, percorrendo con lo sguardo la lunga linea da salire, sapendo che sarebbe stata impegnativa, perchè troppi sono i punti di domanda a cui non riusciamo a dare una risposta. Ma dal basso non possiamo sciogliere i dubbi e le incertezze, dobbiamo salire per avere le risposte.

Dovevamo provarci. Con attenzione abbiamo preparato il materiale, spuntato le nostre liste, misurato e centellinato il peso dei sacconi. Ad ogni cosa riposta nello zaino aumenta la nostra consapevolezza: in qualsiasi momento, in qualsiasi istante, durante il viaggio che ci apprestiamo a fare, non esiteremo a rinunciare. Questo ci è chiaro, come sempre, come le altre volte, come negli scorsi inverni. Alla minima titubanza, al più trascurabile contrattempo, al più piccolo segnale presteremo attenzione, per non prenderci più rischi di quanti questa passione già comporta, per non precluderci la possibilità di tornare a terra. Pur consapevoli di questo la nostra determinazione è alta e partiamo.

Il cielo è velato, abbiamo tre giorni a nostra disposizione, per cercare di salire la montagna. Non appena entriamo nel suo cono d’ombra, il suo silenzioso abbraccio ci avvolge, la parete incombe. La parte basale, come i torrioni d’uscita, sono veramente sporchi di neve. Proprio così dico: “La parete è sporca di neve.”

Sorrido e continuo a guardare affascinato tanta meraviglia. Concordiamo che anche solo per alzarsi da terra sarà decisamente dura. Però una cosa è certa, questo termine: “sporca” non va affatto bene, la neve non può essere sporca e non può sporcare, anche se qui, ora, rende il nostro cammino difficile, e forse impossibile. Quindi sarebbe meglio dire che la parete è impreziosita dai bianchi arabeschi della neve. Mentre penso a questo, saliamo ai piedi delle rocce e ci prepariamo meticolosamente, con cura ordiniamo il materiale sugli imbraghi e  nei sacconi, che recupereremo al nostro seguito. Merletti e meringhe, soffiate e inconsistenti, fanno bella mostra dove la roccia non va oltre la verticale, a volte qualcuna crolla e si polverizza nell’aria, infilandosi nel collo delle nostre giacche. Daniele procede con lentezza e decisione, pulisce la roccia, libera le fessure, si protegge, sale. I ramponi e le piccozze grattano la roccia sino a trovare un’asperità su cui fare presa, è tutto molto precario, ci vuole pazienza, una pazienza infinita, ma il nostro tempo purtroppo non lo è. Lo seguo alla prima sosta e recuperiamo i sacconi. Riparte, colate di neve ci investono, nulla di pericoloso, ma decisamente fastidioso, però quella è casa loro e non la nostra. Lei, la montagna, quest’inverno preferisce il frusciare della neve al grattare dei nostri attrezzi. Poche parole, qualche comando di corda, il tempo scorre e scorre. Se arriviamo agli strapiombi, lì potremmo usare le scarpette e muoverci veloci. Vedo Dan sbucare oltre una costola di pietra, si protegge e poi fa crollare una meringa di neve, poi ne rimonta un’altra, sembra sostenere il suo peso.  Ripulisce una fessura per posizionare una protezione. Succede tutto rapidamente, il terrazzino di neve crolla e Dan resta appeso all’ultima protezione. Nulla di grave, ma quello è un segnale. Non ci pensiamo due volte, lo calo in sosta e ci prepariamo alla discesa. Sono quasi sollevato e solo ora percepisco con chiarezza tutta la tensione che ti avvolge in certi momenti, quando scali completamente assorbito dal tuo gesto, dal tuo salire e niente d’altro esiste attorno.

A terra, riponiamo il materiale e prepariamo i sacconi, ce li buttiamo a spalla e allegramente ciaspoliamo verso il sole e verso valle. Con “le pive nel saccone” sorridiamo e ci voltiamo ancora per una volta verso la parete, prima di scapicollarci giù per il bosco.

Dovevamo provarci. Lo abbiamo fatto e ne siamo soddisfatti, anche se abbiamo dovuto desistere.  Lei, la “nostra” montagna, nemmeno si è accorta di noi, però sappiamo che anche il prossimo inverno sarà ancora lì ad attenderci e noi speriamo che ci apra le porte per accedere ala suo reame.

#5 - UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE

Domenica 9 marzo 2014 - 09:05:43 – Cima delle Galline (Valcanale-Bg)

 
Bianco e nero. Forse! Non ne sono sicuro. Non vedo il bianco e non vedo il nero, ma sono immerso in un’infinita gamma di grigi. Sfumature inesauribili in bilico tra due estremi. Non esistono certezze.
Pensi di potere procedere con passo spedito e ti ritrovi a incespicare, tra manti di neve lacerati e screziati di terra e sabbia. Ti ricordi paesaggi dalle forme sinuose, arrotondate dal bianchi, ma procedi intimorito tra spaccature, distacchi, colate, grumi, valanghe, accumuli e alberi divelti. Paesaggi tormentati come non hai mai visto costellano la salita. Il gelo della notte ha bloccato tutto, ma con il sole e il caldo tutto tornerà a mettersi in movimento, a vivere. Sul dosso due grandi cumuli di neve sono ciò che resta di due baite sepolte e le immagino lì sotto, come essere viventi in letargo. Strane sensazioni mi accompagnano, un senso di incertezza, di sospensione che non riesco ad afferrare. Sul crinale tutto si apre, le valli si disvelano, le cime si mostrano. I neri pilastri di verrucano squarciano il bianco lenzuolo della neve. Siamo soli e un senso d’inquietudine mi afferra. Scendiamo sospesi lungo il crinale: cielo, rocce, neve e una foschia alta a velare le valli e la pianura lontana. Solo tracce d’animali ornano la tela, decorandola con traiettorie imprevedibili. D’un tratto mi fermo, prendo la camera e scatto, sperando che lei fissi ciò che il mio sguardo coglie: una perfezione che difficilmente si può descrivere. Non ci sono parole sufficienti per narrare l’incanto delle sfumature che la neve riflette seguendo la curva dei monti, giocando con il vento e la luce. Ripongo la macchina fotografica e scendo, oltre la cresta, lì ci attende il frusciare di mille cristalli perfetti, dove bianchi e neri si sciolgono in grigi inesprimibili che puoi solo accarezzare, scivolandoci dentro.

sabato 22 marzo 2014

GRAZIE MARCO

Marco ci ha lasciati.
Venerdì 14 marzo, nel rincorrere un sogno, sul granito perfetto della Jori Bardill al Pilone Centrale del Freney, ha varcato il limite della realtà, lasciandoci una montagna di emozioni, di tristezze e di lacrime. Ma anche il ricordo indelebile del suo sorriso, del suo entusiasmo che contagiosi si diffondevano attorno a lui. Questo voglio ricordare di Marco e lasciare il magone in sottofondo, voglio colmare il vuoto che ha lasciato inseguendo i sogni con passione e tenacia, essendo sempre pronti a meravigliarsi ogni volta come se fosse la prima volta.
"Ma sai che bello?" Mi ripeteva ad ogni pausa mentre camminavamo e scalavamo in Grignetta. Eppure quei luoghi li vedeva tutti i giorni e su quelle rocce aveva scalato infinite volte, nonostante questo lo stupore continuava a fargli luccicare gli occhi. "Ma sai che bello!"
Lo scorso autunno per OROBIE ho scritto un racconto che narrava di una giornata passata tra le Grigne con lui ... indimenticabile!
Proprio così voglio ricordare il Marco.



MARCO ANGHILERI – Ho bisogno di respirare
Il vento soffia tra le guglie della Grignetta. Le nebbie salgono dalla Valsassina a sfilacciarsi lungo la cresta Senigalia, sino ad avvolgere i Torrioni Magnaghi. Saliamo veloci e ci concediamo brevi soste per due chiacchiere, una battuta. Marco mi guarda, i suoi occhi sembrano ridere, e dice: “Ascolto le sensazioni e poi vado”. Mi parla del suo andare in montagna, del suo alpinismo: “Parto, senza un’idea chiara, comincio a girare mi lascio andare alla libertà di …” s’interrompe, corruga la fronte, cerca le parole, quelle giuste. Si guarda attorno e sorride, riaggancia il mio sguardo, ha trovato le parole giuste: “Sento che ho il bisogno di respirare.” Si volta lentamente e ammira le pareti delle sue Grigne, le scruta come fosse la prima volta, come fossero terre incognite, terre ricche di promesse e d’avventura. Poco dopo mi dirà: “Ancora adesso, a quarant’anni, riesco ancora a trovare dei nuovi angoli, dei nuovi scorci, dei nuovi posticini …”

Marco, nato a Lecco nel 1972, è figlio d’arte. Il padre, Aldo Anghileri, forte alpinista lecchese, non lo ha mai forzato. Anche se in casa si respirava “aria di montagna” lui un poco, la montagna, la temeva e si è dedicato al calcio sino all’adolescenza. Mentre si racconta continuiamo il nostro cammino tra le guglie della montagna di casa, un microcosmo a cui è intimamente legato. Nella voce e nello sguardo si coglie ancora l’entusiasmo, il medesimo di quando era un ragazzino alla scoperta del mondo verticale, quell’entusiasmo trasmessogli dal fratello Giorgio, che ricorda con orgoglio: “Lui era innamorato della montagna sin da bambino, lo vedevo rientrare, dalle giornate d’avventura, felice, contento. – e continua – Quindi mi dicevo: Se la montagna da questa felicità, fammi provare. Ho provato una volta e da lì non ho più smesso.”

Marco brucia le tappe e in pochissimi anni sale vie prestigiose e difficili su tutto l’arco alpino. Tra il 1992 ed il 2000 inanella una serie di prime salite in solitaria sia d’estate che d’inverno, di assoluto rilievo. D’inverno mette in gioco tutta la sua tenacia, la sua capacità di restare tranquillo, di sapere resistere e procedere anche quanto appare impossibile. D’estate polverizza i tempi delle ripetizioni, in questa stagione velocità è la sua parola d’ordine.

Il capolavoro di quegli anni, la salita che lo ha portato definitivamente sulla ribalta alpinistica internazionale è la prima ripetizione solitaria invernale della Via “Solleder-Lattembauer” sulla parete nord-ovest della Civetta (3.218 m). Qualcuno, a ragione, affermò “Una delle più grandi imprese mai realizzate sulle Dolomiti”. Negli inverni precedenti ci aveva già provato una volta, finalmente, dal 14 al 18 gennaio 2000, in totale solitudine, scala gli oltre 1000 metri di questa via storica, dove per la prima volta si parlò di VI° superiore. Ma quando parla delle sue invernali torna sempre sui monti di casa: “Le invernali sono nate in Grigna, dove ho iniziato a sentire il piacere di andare a ravanare”. Marco non scomoda teorie filosofiche, non fa tanti giri di parole, quando parla delle sue salite è semplice e diretto, essenziale: “Le solitarie ormai fanno parte di me. Non le cerco, non mi spingo per andarle a fare. Ci sono dei momenti che arrivano da sole. Sento il bisogno, la voglia di andare e di stare un po’ solo, che siano poche ore o qualche giorno, a casa o in Dolomiti. Un richiamo della foresta. Ed è un piacere stare in giro da solo, mi piace”. Durante l’estate del 2000 compie un’altra impresa di indiscusso rilievo. In contrasto con la lentezza che caratterizza le salite invernali, ora corre velocissimo e in 14 ore e 10 minuti, spostandosi in moto e in bicicletta, tra una parete e l’altra, concatena le vie: Vinatzer con variante Messner sulla parete Sud della Marmolada, Solleder sulla Nord Ovest della Civetta e lo spigolo Nord dell’Agner per la via Gilberti-Soravito.

Questo però è “solo alpinismo”, lo spessore di un personaggio come Marco Anghileri, il polso della sua determinazione e della sua forza di volontà non lo si misurano solamente con le sue grandi avventure alpinistiche, ma soprattutto prendendo atto della tenacia con cui affronta le sue disavventure umane. Il 18 agosto 2001 mentre percorre con la sua moto la strada della Valsassina, viene coinvolto in un incidente Si risveglia in ospedale qualche giorno dopo con fratture multiple agli arti superiori e inferiori, e contusioni su tutto il corpo. È l’inizio di un calvario tra interventi e terapie, visite mediche specialistiche e tanta voglia di ricominciare. Due anni dopo la situazione è ancora grave e i medici che seguono la riabilitazione di Marco dicono che difficilmente potrà tornare a scalare. Ma lui non molla, lui vuole tornare a scalare. Con grande energia e determinazione, mese dopo mese, anno dopo anno migliora. Finalmente torna a scalare sulle sue amate montagne, sembra impossibile ma è accaduto davvero forse perché non ha mai smesso di sognare e desiderare intensamente che il sogno si realizzasse. Mi parla di quel periodo come di un epoca lontana, serenamente senza rimpianti e piagnistei, sento nella sua voce una punta d’orgoglio. Passo dopo passo, montagna dopo, montagna, lunghezza di corda dopo lunghezza di corda, torna ad essere ancora più determinato di prima. Realizza salite di alto livello e concatenamenti da togliere il fiato. Torna la voglia delle solitarie, torna la voglia delle invernali. Quindi torna alla ribalta delle cronache alpinistiche con la prima solitaria invernale della Via dei Bellunesi, 1350 m verticali sino al VI° e A2 sullo Spitz di Lagunaz. Dal 12 e il 17 marzo 2012, completamente isolato in questa terra selvaggia che è la Val San Lucano, compie una salita grandiosa, più volte tentata e sino ad allora ripetuta in estate  solamente dalla forte cordata bergamasca composta da Ivo Ferrari e Silvestro Stucchi.

Penso a queste sue grandi salite mentre lo guardo scalare davanti a me e mi chiedo cosa ci faccio legato alla sua corda, io alpinista della domenica in cordata con un alpinista del suo calibro. Forse proprio in questa sua semplicità e capacità di sapere godere di ogni azione che decide di compiere, anche della più semplice, possiamo trovare il segreto che lo rende unico. Marco prima di essere alpinista è uomo, un uomo che come tutti lavora e vive la sua quotidianità: portare i bimbi a scuola, fare le spese, dare una mano nell’azienda di famiglia, gestire il ristorante ai Piani dei Resinelli, organizzarsi con la moglie per uscire una sera da soli. Insomma Marco è un uomo come tutti noi è questo che ce lo fa sentire vicino, avvicinabile, semplicemente “normale”.

Lo raggiungo al colle e mentre sfiliamo la doppia e prepariamo gli zaini, con gioia mi racconta di quanto si è divertito la scorsa settimana che ha trascorso al mare con i due figli, senza mamma. Nel tempo in cui rientriamo si chiacchiera di come sia difficile incastrare montagna, passioni e famiglia: “Questo è più duro di un passaggio di X°. - afferma ridendo – Cerco a volte di moltiplicarmi oppure di allungare le giornate. Certo che è una gran fatica, però è da stimolo per rinnovare e cercare nuove energie, nuovi equilibri che ti aiutano sia nella vita familiare che in montagna. Cerco di fare come il giocoliere, con le tre palle.” Osservo Marco mentre parla e muove le braccia nell’aria, e penso che in ogni caso, giocoliere o prestigiatore che sia, lui ha il gran dono di essere sempre di buonumore, sempre pronto a stupirsi e a stupire.

Ciao Marco.

mercoledì 12 marzo 2014

#4 - UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE

Domenica 23 febbraio 2014 - 13:38:56 - Valle dell'Asta (Lizzola)


 Da oltre sette ore siamo sugli sci e lui non è stanco, è sempre la, davanti a me. Lui è infaticabile e io lo rincorro, è sempre stato così, da quando lo conosco. Quindi cerco di tenere il passo, ma ad ogni cambio pelle, ad ogni risalita lui è sempre più lontano. Però su ogni cima mi attende, si riposa, e insieme ci gettiamo nella discesa, ricamando ogni volta pendii vergini. Lui è così. Quando vedo la sua silhouette stagliarsi contro il bianco dei manti, immobile, so già a cosa sta pensando, so già che la sua mente è già oltre, il suo sguardo e già fisso sulla prossima cima. Io sento l'acido che indurisce i muscoli e la stanchezza permeare il mio corpo, ma il mio sguardo no, quello non è stanco, quello è esattamente già la, oltre la sua silhouette, sulla stessa vetta dove si è posato il suo.
Così lo raggiungo, lui ride, ha già tolto gli sci e sta mettendo le pelli di foca. Rido e non mi resta altro da fare che seguirlo. Perchè certe volte non si è solo golosi, ma addirittura ingordi. E oggi è una di quelle giornate perfette in cui non ti fermeresti mai, e vai sino a quando i tuoi muscoli non ti implorano e il tuo corpo chiede riposo. Oggi avevamo appetito, un robusto appetito che ci ha fatto gustare sei salite tra ombra e luce, sei cime sospese nel blu, sei discese di polvere intonsa. Oggi siamo stati ingordi. Io e lui, il mio amico Daniele.

#3 - UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE

Domenica 16 febbraio 2014 - 18:05:58 - Olera (Alzano Lombardo - Bergamo)



Oggi, tra le mura di casa, ho scritto e lavorato tutto il giorno mentre fuori la pioggia incessante non ha lasciato tregua. Di tanto in tanto volgo lo sguardo alla finestra e scruto le traiettorie delle gocce e la loro intensità che mutano con il vento. Il fuoco arde nel camino alle mie spalle. La bolla di luce blu, sospesa al soffitto, proietta un cerchio chiaro sul piano del tavolo dove lavoro. La vita scorre pacata attorno a me, ma è tumultuosa dentro. Vorrei correre, mi dico, poi guardo fuori ed il muro di grosse gocce strapazzate dalle raffiche mi fanno desistere. Così passa il tempo, rotolano le ore l’una sull’altra, mentre le nubi salgono e scendendo, fagocitando e restituendo paesaggi di tetti, boschi e cieli dai grigi infiniti. Lentamente giunge il tardo pomeriggio, tra meno d’un ora sarà buio. Vorrei correre, mi ripeto una volta ancora. Oltre i vetri striati dall’acqua qualcosa è cambiato, mi alzo, apro la porta-finestra e esco sul terrazzo. Non piove e il rumoreggiare del torrente sale dalla valle a saturare l’aria. Pochi minuti dop, mi chiudo il portone di casa alle spalle e faccio partire il crono. A cosa mi serve farlo partire non so, non ho tempi da misurare e tabelle da rispettare, ma è ormai un’abitudine. Mi piace premere con l’indice il tasto in alto a destra dell’orologio e sentire quel bip mentre allungo i primi passi, per poi risentirlo alla fine quando al rientro mi fermo sul viottolo davanti a casa. Fango e pietre viscide accolgono il mio correre, una continua attenzione, un continuo affinare il sentire dei miei piedi. Appoggio e spingo alla ricerca di un equilibrio dinamico e costante. Umidità e nebbie avvolgono i monti mentre scende la sera. Rientro che ormai è quasi buio. Mi siedo sui due gradini fuori dall’uscio, affacciati sulla viuzza. Le luci delle finestre ammiccano dai muri di pietra, come pozzanghere di calda luce. Ma qui è freddo e una  nuvola di vapore si leva dal mio corpo, che si perde nel cono di luce del lampione. Il canto degli uccelli arriva dalla vigna appena discosta e dalla casa di fronte pulsa  l’incedere ritmico e potente della batteria di John Bonham. Una fusione di suoni, una sinfonia speciale e irripetibile accompagna il quietarsi del respiro e il rallentare del battito. Godo di questi istanti. Mi sfilo le scarpe fradice e sporche. Resto immobile e ascolto.