domenica 27 luglio 2014

#3 - PARETI E RACCONTI - MARIO CURNIS E IL PIACERE DI SCRIVERE



Stiamo scendendo, Mario è qualche passo avanti a noi, assorto nei suoi pensieri.

– Chissà a cosa pensa? – mi chiedo. - Cosa avrà portato a galla questa giornata trascorsa in questi luoghi? Quali ricordi e quali immagini saranno riemersi dalle quinte della memoria? –

La scorsa estate, in una giornata perfetta, Matteo ed io accompagniamo Mario Curnis ai piedi del grandioso versante nord dell’Adamello. Con calma risaliamo tutta la Val d’Avio sino al Rifugio Garibaldi. Matteo scatta, scatta e scatta, con le sue fotocamere cattura attimi che raccontano persone, paesaggi, atmosfere. Io sono tra loro, chiacchiero e mi appunto ogni emozione, ci provo. È l’occasione di ascoltare le mille storie che Mario ha da raccontare e raccoglierle proprio lì, tra i monti dove tutto è accaduto, dove le sue parole risuonano con una vibrazione differente, forse più profonda.

Lo osservo, mentre rientriamo in silenzio. Sulle ampie piode di pietra che lastricano il sentiero Il suo passo è sicuro. A ogni tornante cerco di catturare la luce dei suoi occhi. A volte lo sguardo di Mario resta fisso a terra per cercare il giusto appoggio, oppure vaga sulla valle e sale lungo le pendici sino alle grandi pareti che ci circondano. Altre volte gira il capo e ci guarda per un istante, come d’istinto fanno tutti i capibranco, forse per assicurarsi che noi ci siamo e non ci siamo attardati. Sicuramente sarà stato così anche cinquant’anni fa mentre, sprofondando nella neve e avvolto dal gelo dell’inverno, guidava il rientro a valle tenendo d’occhio i suoi amici, compagni d’avventura con cui aveva appena scalato lo spigolo Nord dell’Adamello.

Le storie che mi ha raccontato questa mattina, mentre salivamo con tutta calma al cospetto della grande parete nord, sono stati doni  preziosi. Ma quanti altri ricordi, trascinati dalle parole, saranno riemersi senza essere narrati, quante emozioni e immagine vorticheranno ora nella testa di Mario. Taccio e continuo a osservarlo mentre provo a immaginarlo venticinquenne, in quel freddo inverno del 1963, quando, dopo avere deciso di salire in prima invernale lo spigolo nord dell’Adamello, si ritrova con gli amici Damiano Petenzi e Piero Bergamelli, detto “Stremasì”, al Bar Alpino di Nembro. Quello era il quartiere generale dell’alpinismo nembrese, sopra il bar c’era la casa di Leone Pelliccioli, figura di assoluto riferimento. Con i tre alinisti si trovano anche Franco Maestrini e un altro amico. Ognuno mette il suo materiale e lo zaino sull’auto e quindi partono. Non essendoci spazio per tutti Maestrini e l’amico, che avrebbero aiutato a portare il materiale alla base della parete e, salendo dalla via normale, li avrebbero attesi in vetta, li seguono con la motocicletta. Giunti a Vezza d’Oglio, dove parte il sentiero per il rifugio Garibaldi, i conti non tornano: manca uno zaino. Piero ha dimenticato il suo al bar Alpino. Mario ride ancora oggi mentre racconta questa storia: “Piero è un mio grande amico, ancora oggi. Lui è fatto così, un Gianburrasca. Ne ha combinate tante altre come questa, ma non puoi volere male ad una persona come Piero. Non puoi nemmeno arrabbiarti, perché lo fa con innocenza.” Mentre racconta di questa avventura Mario continua: “Che freddo! Faceva un freddo! Allora telefoniamo al bar Alpino e ci dicono che lo zaino era ancora lì. Un amico lo prende e con la moto parte per la Val Camonica. Intanto il Maestrini, risale in moto e gli va incontro. Non c’erano i cellulari in quegli anni e pensa, che fortuna! Faceva così freddo che per scaldarsi il Maestrini, giunto a Lovere, si ferma e entra in un bar. Sai chi ci trova? L’amico di Nembro, che si era fermato pure lui per il freddo.”



Mario questa mattina mi ha raccontato divertito questa e mille altre storie. Abbiamo parlato per tutto il tragitto, camminando senza fretta e facendo qualche pausa. Ora durante la discesa lo vedo assorto, pensoso, come rapito dai ricordi che quei luoghi hanno risvegliato. Della salita, in termini alpinistici, ne parla gran poco. In due giorni il 9 e 10 febbraio i tre percorrono la via, il suo unico commento: “Il primo giorno abbiamo bivaccato a duecento metri dalla cima, siamo saliti bene. Poi siamo andati in vetta e a scendere è stata un po’ lunga.” Eppure quella prima salita invernale non sarà stata una passeggiata e con i materiali e il vestiario di allora l’impegno sarà stato decisamente elevato. Ma Mario non indugia su questo, quello su cui più volte si sofferma sono dettagli e frammenti legati al rapporto con i compagni di cordata. Mentre li racconta c’è una freschezza e un’energia nella sua voce che pare stia parlando di cose successe la scorsa settimana e ride mentre narra un’altra cosa che ha combinato Piero. Non fatico a immaginare i tre alpinisti impegnati lungo quello sperone di granito incrostato di ghiaccio e neve, con gli abiti di lana, le giacche di nylon, gli zaini pesanti e quel freddo intenso che ti entra nelle ossa. Durante una sosta Mario chiede a Piero di scaldare un poco di acqua, sul “fornellino a meta”, e preparare un te caldo, giusto per scaldarsi un poco e combattere il gelo. Mi immagino il pentolino fumante che passa di mano in mano e sento addirittura sulle mie mani il piacere che può avere dato quel contatto. Vedo perfettamente il gesto di portarsi la bevanda alla bocca, quasi a sentire sul volto il vapore caldo del the. “Ci siamo passati il pentolino. – dice Mario – Sai com’è, un freddo cane. Lo provo e dico: Ma Piero! Cosa hai messo in questo thè? Non hai messo lo zucchero? In poche parole invece che mettere le zollette di zucchero, aveva messo tre dadi del brodo. Erano le sue specialità quelle. Abbiamo riso un bel po’ e ci siamo bevuti il cocktail.

Quella fu, nel massiccio dell’Adamello, la prima salita invernale su una grande via.

Mentre cammino e ripenso alla giornata trascorsa, mi convinco sempre di più che parlare con lui lì, dove tutto è accaduto, ha un sapore differente. Fissare gli occhi di Mario che brillano, mentre racconta e cammina, mentre racconta ed osserva la parete, è un privilegio. Così scopro del suo rapporto particolare con la scrittura e dei suoi diari gelosamente custoditi, di questa abitudine ereditata dal padre. Ci confrontiamo sul perché scrivere di sé e sul potere della parola scritta. Si ferma, mi guarda e dice: “Quando scrivo dico cose che, quando parlo, non vogliono uscire. Quando hai scritto una cosa di te, quella è ormai uscita da te ed è lì sulla carta. Buttare fuori le cose, soprattutto quelle brutte, ti aiuta a capirle, a superarle, a guardarti avanti e a vivere.”


Adamello parete Nord

Pillole di storia

Sino agli anni “60 due erano le vie che percorrevano il versante nord dell’Adamello. Lo spigolo nord-ovest aperto nel 1904 da Alessandro Gnecchi e Giovanni Cresseri, con difficoltà sino al IV e uno sviluppo di 650 metri. Lo spigolo Nord salito nel 1906 da Paolo Arici, Emilio Brocherel e Ugo Croux, con una lunghezza di 700 metri e difficoltà massime di IV+.

Nel febbraio 1963, Mario Curnis e compagni compie la prima salita invernale dello spigolo nord. Proprio in quei giorni, Mario mi ricorda, che Walter Bonatti era impegnato sulla Via Cassin allo Punta Walker delle Grand Jorasses. Erano gli anni in cui l’alpinismo invernale era in voga su tutto l’arco alpino. In Adamello, dopo questa salita, Mario c’è tornato altre volte per percorrere, sempre in inverno, altre vie sparse sulle cime dell’intero massiccio, dal Castellaccio, al Corno di Gioià, alla Busazza, alla Presanella, al Tredenus, sino alla Punta Adami. Sulla nord dell’Adamello ci torna ancora in inverno per salire lo spigolo nord-ovest. Arrivato al rifugio si rende conto che una cordata lo precede di un giorno. Attacca ugualmente e li raggiunge per mettersi in testa sino all’ultimo tiro sotto la vetta. Mario a quel punto cede il comando all’altra cordata esattamente all’alpinista bresciano Beltrami Francesco, che essendo il più anziano del gruppo meritava di calcare la vetta per primo. Alla nord è particolarmente legato non solo per queste avventure, ma anche per le numerose scalate estive e una in particolare ama ricordare, quando in cordata con Renato Casarotto hanno ripetuto lo spigolo dei Bergamaschi, che era stato da poco salito da Cortinovis e Pulcini , il 3 luglio del 1966. Per Mario però l’alpinismo invernale resta l’espressione più completa e impegnativa in cui uno scalatore si possa mettere alla prova. Tante delle sue energie sono state investite nella montagna d’inverno, anche per poi essere pronti per l’alta quota, le grandi montagne del mondo e i giganti della terra, su cui ha collezionato prestigiose ascensioni.

Negli anni “80 il versante nord ovest è teatro di tre nuove vie su roccia, mentre sulla nord vera e propria si deve attendere l’inverno 1989 quando Mutti apre in solitaria una via di ghiaccio e misto "Hallo Woman of My Dreams", lo stesso Mutti in compagnia di Salvi nel 1992 sale “Senza  chieder permesso”, che parzialmente ricalca la linea discesa con gli sci da Battistino Bonali, un capitolo sconosciuto nella storia dello sci estremo. Nel 2007 queste due vie vengono ripetute e se ne scopre la bellezza e l’impegno. In quell’inverno nascono sulla nord cinque nuovi itinerari di ghiaccio e misto e la parete torna ad essere oggetto delle attenzioni di molti alpinisti che riscoprono questo terreno d’avventura dove Mario Curnis è stato uno dei pionieri assoluti. Mentre chiacchieriamo di queste salite e delle più recenti vie aperte sulla parete chiedo che impressione gli faccia essere lì 50 anni dopo: “Io devo ringraziare sempre la montagna – dice Mario -  che mi ha fatto passare una bella vita e che mi ha aiutato nei momenti brutti della vita. Non avrei mai pensato a 77 anni di essere ancora qui.”

Pubblicato su "OROBIE" - luglio 2014 

#9 UN'IMMAGINE DICE PIU' DI MILLE PAROLE

- Martedì 15 luglio - ore 11:30:00 – Isola di Fondra – Valle Brembana -


E se nulla fosse vero? Se nemmeno questa volta la mia visione fosse reale? Se  dovessi ancora una volta cambiare prospettiva? Ho deciso! Ci provo. Oggi la ribalto, la prospettiva.

Radici nel cielo si protendono, si espandono, ne occupano un’infinitesima parte, ma la vita è altrove.

Sotto i miei piedi nell’humus della terra, nel suo profumo organico, nella sua friabile consistenza, lì la vita di espande e pulsa. Dove il tempo, quasi immobile, scorre lento nell’incedere geologico delle ere, lì le radici crescono, fendono la roccia, la esplorano, ne succhiano acqua e alimenti minerali.

Dentro il mio corpo, dove i sensi nulla possono fare, la vita  si dilata in spazi siderali, dove irrequieta la mente vaga alla ricerca di un senso in grado di placare le infinte domande.

Sopra mi tuffo tra le nubi, dove nei regni fantastici di Miyazaki, tutto è possibile e lo stupore è sovrano.

Vorrei essere sempre pronto a stupirmi e a trovarmi ogni volta spiazzato da ciò che vedo, da ciò che sento, da ciò che immagino, per potere cogliere i ritmi della vita.